Commentari sul Gioco di Ruolo: gdr, interpretazione e forma-merce
Di recente mi sono imbattuto in questo interessante articolo a firma Andrea Ferretti per GlobusMag: Breve Manuale del Gioco di Ruolo Consapevole, in cui l’autore sopracitato si lancia in considerazioni (a onor del vero molto profonde e articolate) sul gioco di ruolo, l’interpretazione e la forma-merce.
Dopo un breve scambio tra me e Andrea sulla pagina Facebook di GDR Magazine, ho promesso a quest’ultimo di scrivere un articolo nel quale avrei approfondito le mie critiche alla sua disamina, critiche che (per motivi di spazio e di contesto) non avevo avuto modo di esporre al meglio in quella sede.
Naturalmente questi commentari mi offrono anche lo spunto per esporre la mia concezione di gioco di ruolo, perché nel momento in cui discutiamo le tesi di qualcuno non possiamo fare a meno di esplicare le nostre. Sul blog ho toccato diverse volte l’argomento occupandomi ad esempio di Spirito del gioco di ruolo e del ruolo del Dungeon Master, ma non ho mai parlato, nella fattispecie, di interpretazione: ringrazio quindi Andrea per avermi fornito l’assist per occuparmene adesso !
In questo articolo riporterò vari frammenti dell’articolo succitato, ma naturalmente consiglio ai lettori di andarsi a leggere il testo per intero, se non altro per contestualizzare le frasi che io riporterò, per capire meglio il senso delle mie critiche e anche perchè nonostante io non sia d’accordo su tutto, credo che valga davvero la pena leggere la disamina di Andrea.
Fatta questa doverosa premessa, inizio col commentare la prima parte dell’analisi.
I Tre elementi del Gioco di Ruolo
Credo che il succo della prima parte dell’articolo di Andrea Ferretti sul gioco di ruolo sia riassumibile in questo frammento:
Un GDR è composto infatti da tre elementi fondamentali: a) il sistema di regole (determina come devono essere gestite determinate azioni dei personaggi, in particolar modo i combattimenti e l’uso delle loro abilità), b) l’ambientazione (lo spazio, il tempo e le società fantastiche di cui i personaggi fanno parte), c) l’interpretazione (il dover impersonare un personaggio). Lo scopo di regole e ambientazione è quello di fornire l’insieme delle condizioni condivise da giocatori e master affinché sia possibile l’interpretazione. Siccome queste condizioni possono essere soddisfatte in diversi modi, regole ed ambientazione costituiscono la parte variabile; sono ciò che rende diversi i vari GDR. Non sono elementi neutrali, ma indirizzano e condizionano, in modo più o meno apprezzabile, quali aspetti dei loro personaggi i giocatori saranno portati ad evidenziare all’interno del gioco. Tuttavia, come una buona costituzione non implica sempre una buona prassi politica, così un buon sistema di regole ed una bella ambientazione non assicurano la buona riuscita di un GDR. Si tratta di condizioni necessarie, ma non sufficienti.
Il gioco di ruolo non può e non deve essre associato ad una merce, nemmeno alla “forma” della merce.
Andrea ci sta in pratica dicendo che il sistema influenza, ma non definisce, un gioco di ruolo: non sono sufficienti un regolamento perfetto ed un’ambientazione originale e ben fatta a garantire che il gdr “funzioni” (che un gdr debba “funzionare”, poi, è una concezione che merita critiche approfondite che a suo tempo ho già esposto nell’articolo linkato in apertura dedicato allo spirito del gioco di ruolo). Questo ci porta alla domanda: quale è l’altro elemento che contribuisce alla buona riuscita di un gioco di ruolo ?
Andrea ci risponde così:
Ciò su cui vorrei concentrami è dunque il nucleo narrativo-interpretativo dei GDR. Per quanti ne possano essere inventati, tutti consisteranno nell’assumere un ruolo all’interno di una dimensione immaginativa. Per quanto possano diventare normativamente complessi (o contorti), ogni GDR, finché è un GDR, si fonderà su una capacità primaria ed essenziale del nostro animo, il “facciamo finta che…”. Se è così, allora la domanda da porre per cercare di comprendere difetti e possibilità di queste pratiche ludiche è: “che cosa vuol dire interpretare un personaggio in un GDR? Secondo quali modalità e con quali effetti sul gioco ciò può avvenire?”
E qui introduciamo l’argomento cardine dell’articolo di Andrea, ovvero l’interpretazione del ruolo. Sgombriamo il campo dai malintesi: qui non si parla di regole, sistemi o originalità delle ambientazioni, ma solo ed esclusivamente dell’aspetto squisitamente interpretativo. E dopo questa premessa, entriamo nel vivo con la seconda parte.
Il gioco di ruolo come merce e potere illimitato dell’Archetipo sul Personaggio
Le mie critiche iniziano da qui. Utilizzare un concetto quale quello marxiano di “merce” quando si parla di un’attività creativa e libera come quella del gioco di ruolo, secondo me, è una pratica già viziata di fondo. Che c’azzecca la critica marxiana del valore di scambio con i giochi di ruolo (e sopratutto, con l’interpretazione) ?
Ma di questo concetto mi occuperò a fondo nelle Conclusioni.
Leggiamo:
Quando il GDR viene giocato esso si impone, almeno in qualche misura, come merce, giocattolo, oggetto di consumo. L’esperienza stessa del gioco assume il carattere della merce, la quale porta con sé una promessa, quella di un godimento illimitato, illimitatamente fruibile. L’imperativo del “sistema-gioco” allora sembrerebbe dire: affidati alla merce ed essa ti darà piacere. Nel rapporto tra il giocatore ed il suo personaggio questo aspetto si traduce in una disponibilità illimitata del secondo per il primo. Il personaggio è qui una maschera sottile, quasi impalpabile, che si schiaccia su quelle che sono le banali e quotidiane ambizioni e frustrazioni del giocatore. Il ruolo da assumere nel gioco e quelli che si assumono nella realtà si confondono, facendo quasi vacillare il costitutivo “facciamo finta che io sia…”.
Si tratta di una visione eccessivamente “psicologistica” e vedremo come questa lettura troppo freudiana dell’autore comprometta le sue analisi successive.
Tanto per cominciare, quando io mi siedo al tavolo per giocare, ho a che fare con un gioco, il gioco di ruolo appunto, che a differenza della merce, è un’attività e non un prodotto; non ha valore di scambio ne un valore d’uso; non deve soddisfare un bisogno indotto artificialmente da una società capitalistica, bensì solo il mio spontaneo bisogno di divertirmi e creare liberamente.
Interpretare o non interpretare, questo è il dilemma ! Ma un Pg tipo Amleto, come lo vedete ?
Non ci avviciniamo al gioco di ruolo con la speranza che ci permetta di vivere nel corpo di un altro o di sfogare le nostre frustrazioni quotidiane immaginando di essere guerrieri alti 2 metri e di mollare colpi a chi ci guarda storto (cosa che non potremmo fare nella realtà). Il fatto che alcuni lo facciano, non significa che questa sia pratica consolidata nell’ambiente dei gdr.
Nessun gioco di ruolo ha mai avvalorato questa tesi, implicitamente o esplicitamente. Nessun manuale o autore di gdr “promette” un’evasione dalla realtà; nei giochi di ruolo ci si immedesima in qualcun altro, certo, ma questo è funzionale all’esplorazione del contenitore virtuale e non certo per combattere le nostre paure o per fuggirne evadendo. Non esclusivamente, perlomeno !
Infatti, non posso esplorare il mondo fantasy se non creo prima un alter ego adatto a quel contesto ! Ma questo non significa che io debba per forza usarlo per immaginarmi migliore, più forte o più saggio di quel che sono. Questo va bene forse per i ragazzini di Stranger Things, ma non per un individuo che vuole soltanto trascorrere una bella serata in compagnia dei propri amici.
Andiamo avanti:
In questa disponibilità come potere illimitato del giocatore sul personaggio, il primo perde ogni forma di autonomia e creatività, in quanto rimane irriflessamente vincolato a ciò che di sé stesso vive quotidianamente. Paradossalmente il massimo potere diventa la mancanza assoluta di potere, perché sarà lo stesso immaginario a scegliere le maschere adatte per il giocatore. L’immaginario funziona qui come semplice codice-meccanismo che fornisce al giocatore ciò che gli serve per soddisfarsi nel gioco. Ad esigenza, propone il suo ventaglio di soluzioni metaforiche. Se il proprio sé quotidiano è normalmente limitato nella sua possibilità di godere di ciò di cui vuole godere, il GDR semplicemente rimuove il limite tramite la mediazione del personaggio e del mondo fantastico in cui “tutto può accadere”. Il personaggio sarà così una versione illimitata di sé stessi e uno sfogo sregolato di ciò che normalmente è (e deve essere) limitato. Si viene così subito giocati dal giocattolo e dal suo essere una semplice merce di finzione, ovvero una finzione volta al soddisfacimento di un bisogno diillimitatezza, una finzione al semplice servizio della quotidianità.
E qui veniamo al fulcro del discorso di Andrea; questa è la parte più problematica di tutto l’articolo. Non so bene in che modo l’autore sia giunto a questa conclusione, ma nella mia esperienza quando si gioca di ruolo siamo noi Giocatori a creare i nostri personali Archetipi con cui esplorare il contenitore virtuale, e non ci limitiamo soltanto a quelli che “l’immaginario” pre-costituito del gioco e dell’ambientazione ci forniscono.
Non siamo “usati” dal gioco; siamo noi ad usarlo modificandolo e plasmandolo secondo le nostre esigenze. Il gioco di ruolo infatti ci fornisce certo delle basi di partenza, delle “figure” standard (il guerriero, il mago, ecc. ecc.) ma è sempre il Giocatore ad avere l’ultima parola sul ruolo che il suo Personaggio rappresenta nel gioco. Gli Archetipi ci tengono per mano, ci introducono all’immaginario di riferimento, ma una volta dentro, dobbiamo camminare da soli. Idem dicasi per ambientazione e sistema, che non sono mai rigidi e fissi, ma in costante divenire (benedetta Regola Zero).
Siamo proprio noi, con le nostre azioni nel corso delle avventure, a dar vita ai nostri Archetipi: anche se basati su quelli classici e tradizionali, essi divengono altro, divengono il risultato delle nostre azioni e scelte nel corso del gioco. E quindi divengono nostri; divengono unici.
Il gdr come merce che soddisfa un bisogno di illimitatezza
Sul discorso illimitatezza invece, ben più complicato, bisogna spendere qualche parolina in più. Il concetto del limite o métron deriva dalla filosofia greca ma viene fatto oggetto anche delle riflessioni di altri pensatori (ad esempio Hegel) nel corso della storia della filosofia: questo concetto aveva lo scopo di promuovere una “misura”, cioè un insieme di norme del corretto vivere sociale e comunitario (Katéchon), contro l’illimitatezza (Hybris) rappresentata dall’ego, dall’eccesso di potere personale, dalla ricchezza spropositata a danno della popolazione e via dicendo.
Ora, parlare di gioco di ruolo come mezzo per superare la “limitatezza” della vita quotidiana e suggerirne così una lettura negativa (“bisogno di illimitatezza”), significa storpiare e portare alle estreme conseguenze il concetto di interpretazione, che per sua natura non implica affatto tutto ciò.
Interpretare non serve affatto ad ottenere uno “sfogo sregolato”: forse qui Andrea aveva in mente un altro genere di gioco di ruolo, quello di natura sessuale (e allora si, potremmo considerare la sua lettura come corretta). L’interpretazione nel gdr al contrario, non ha affatto il compito di permettere al Giocatore di “sfogarsi”, perchè ciò sottintenderebbe una libertà incondizionata che invece, nella realtà del gioco giocato, non esiste.
Infatti, anche se interpreto un Personaggio in un mondo fittizio, ciò non significa che io possa fare come mi pare; sono infatti già “limitato” da ben tre elementi:
- Il Master (in quanto “altro” dai Giocatori, rappresenta per essenza il loro limite);
- Il Mondo di gioco (o contenitore virtuale, che ha delle leggi, per quanto strane e assurde possano essere);
- Gli altri Giocatori (che si limitano a vicenda, in quanto ciascuno ha come obiettivo il proprio divertimento, il
Gli Archetipi nei gdr sono solo punti di partenza, necessari per muovere i primi passi, ma dai quali ci si stacca ben presto grazie alle scelte del Personaggio nel corso del gioco.
cui concetto e modalità per ottenerlo variano da Giocatore a Giocatore).
Ricapitoliamo: il vizio di fondo della concezione di Andrea è che considera solo l’interpretazione come dinamica di relazione tra il Giocatore e il proprio Personaggio senza prendere in esame tutti gli altri fattori che costituiscono il gioco di ruolo: la dialettica tra Player e Pg non è la sola a mettersi in moto nel corso del gioco di ruolo e anche se considerassimo la sola “interpretazione”, essa non sarebbe nulla senza un pubblico (il gruppo di gioco) che assiste: non c’è soddisfazione a far finta di essere guerrieri a casa, da soli, davanti allo specchio ! Così come non ce ne sarebbe a scrivere un racconto che nessuno leggerà mai.
Ergo, il gioco di ruolo è attività sociale e quindi auto-limitantesi nel gruppo, in senso positivo: non un esercizio di solipsismo illimitato tra me e il mio alter-ego. E’ qui che la lettura di Andrea risulta falsata, probabilmente perchè confonde le dinamiche del gdr con quelle della nostra società di stampo capitalista che, questa si, impone degli Archetipi e delle Maschere da indossare (vedi il paragrafo seguente).
L’interpretazione quindi non ha affatto la funzione di permettere al Giocatore di soddisfare un non meglio specificato “bisogno di illimitatezza”, e con questo non voglio dire che non esistano persone che si dedicano ai gdr per questa ragione : ma è una parte, non il tutto.
Evasione, divertimento e una sana “fuga” dalla quotidianità infatti, non implicano affatto le estreme conseguenze cui fa riferimento Andrea. Si interpreta per esplorare il mondo fittizio, non certo per fuggire da quello reale.
Il Gioco di Ruolo e l’emancipazione del Giocatore dalla tirannia dell’Archetipo
Veniamo ora all’ultima parte dell’articolo, in cui l’autore cerca di porre dei limiti alla dinamica illimitata Giocatore-Personaggio che ha descritto in precedenza e che invece , come abbiamo visto, è semplicemente negata dalla realtà del gioco giocato e dall’interazione stessa con il gruppo e il setting.
Ricapitoliamo: Andrea sostiene che nei giochi di ruolo il Giocatore, quando interpreta, è in realtà “interpretato” dal proprio Personaggio, che gli si impone come mezzo per sfogare il proprio bisogno di libertà incondizionata (tramite Archetipi), bisogno che non può ovviamente essere soddisfatto nella realtà di tutti i giorni.
Sempre secondo Andrea, è il Personaggio, una sorta di “maschera sottile” derivante dall’immaginario di riferimento (non capisco se questo immaginario derivi solo dall’ambientazione e dal genere del gioco o anche dal background del giocatore), a governare le azioni del Giocatore e non viceversa.
Ora ci viene fornito un metodo per contrastare questo processo e introdurre un limite, per acquisire così l’esperienza che Andrea definisce “gioco autentico”:
Questa meta-regola implica la ridefinizione del rapporto tra giocatore e personaggio come rapporto di disponibilità limitata, dove il limite consiste nell’individualità propria del personaggio. Il giocatore crea sempre scegliendo tra i materiali dell’immaginario-merce che gli viene dato, ma il fine non è più quello di creare un impalpabile ologramma di sé stessi, privo di ogni resistenza ed illimitatamente cedevole alle esigenze del giocatore. Al contrario, egli cerca di impersonare una creatura viva, un individuo che gli si opponga e faccia sentire la sua propria voce. L’immaginario qui non funziona più come un meccanismo del tipo bisogno di godimento illimitato-soddisfazione metaforica, ma, al contrario, diviene il luogo di esercizio di una immaginazione autonoma e creatrice. Ciò che guida il giocatore qui non è tanto la ricerca di un tipo da cui farsi “rivestire”, quanto la logica fantastica che governa lo sviluppo dei comportamenti del personaggio in quanto individuo.
Quindi per non farci “dominare” dall’Archetipo precostituito, dobbiamo invece imporre un’individualità al nostro Personaggio rendendolo “vivo”. Così vivo da opporsi a noi e far sentire la propria voce (!!). Il Personaggio deve divenire qualcosa di completamente Altro da noi e vivere di vita propria… una concezione che è tipica di certi ambienti narrativisti.
Andrea dimostra con questa frase di non avere afferrato davvero le dinamiche del gioco giocato, quello reale, non quello che la sola teoria può spiegare. Perchè dico ciò ?
Per i seguenti motivi:
- l’interpretazione nei giochi di ruolo non ha lo scopo di creare “impalpabili ologrammi di se stessi”, ne quello di “impersonare una creatura viva che si opponga al Giocatore e faccia sentire la propria voce”: entrambe queste visioni appartengono a concezioni del gdr superate e non avvengono quasi mai nella realtà del gioco giocato moderno. Nel gdr, lo ribadisco, gli Archetipi non vengono imposti, ma scelti liberamente dal Giocatore come punti di partenza per costruire il proprio alter ego.
- La prima concezione, che nasce probabilmente con l’Old D&D del 1974 e coincide quindi con gli albori del gdr, deriva dall’idea di gioco di ruolo come interazione del Giocatore con un universo fantastico, in cui le regole o la profondità psicologica del Personaggio non avevano molta importanza, che era tutta incentrata invece sull’esperienza di vivere avventure: non a caso i primi giocatori di ruolo (come Greg Svenson) chiamavano i Personaggi col proprio nome (“il Grande Svenny”) e nei loro racconti nessuno si sofferma tanto sulla personalità dei loro alter-ego, quanto sulle peripezie da essi vissute. Questa concezione però non esiste più da tempo e i giocatori moderni raramente interpretano semplici “ologrammi di se stessi” ! C’è chi lo fa ancora e non c’è nulla di male in questo, ma di nuovo, non possiamo generalizzare. Inoltre, anche in questo caso (come ho già scritto sopra) il Personaggio è già vivo e “individuo” in quanto esso è il risultato delle scelte del Giocatore che lo muove: non un semplice “ologramma” quindi, e nemmeno una “maschera” da tragedia greca, come crede Andrea.
- La seconda concezione è semplicemente frutto di un’utopia generata dall’eccesso di narrativismo degli anni ’90 -2000, un’ubriacatura pseudo-letteraria il cui maggior esponente è stato senz’altro Vampiri la Masquerade: un gioco di ruolo che aveva la pretesa di condensare e metaforizzare i drammi reali e il disagio sociale del Giocatore del ventesimo secolo nella figura del Vampiro-reietto, un essere che aveva si il potere di distruggere interi eserciti, ma che doveva costantemente tenere sotto controllo i propri istinti primordiali dandosi delle “regole di condotta”. Con Vampiri si inizia a parlare di Personaggi che devono vivere di vita propria, per usare le parole di Andrea: in breve, il Personaggio che creo dovrebbe essere più reale del Giocatore che lo muove (“più umano dell’umano” direbbe Tyrell in Blade Runner) ma allo stesso tempo completamente distaccato da esso, una persona in carne e ossa. Improvvisamente, il metagaming diviene fuorilegge, e chiunque dichiari di voler giocare un Personaggio “semplice” (il guerriero Bob) per razziare qualche tana goblin e divertirsi in compagnia degli amici viene sommariamente additato come “power player” o “hack’n slasher” (a chi voglia approfondire consiglio l’interessante disamina di Mauro Longo sulla Middle School, un neologismo da lui coniato per delimitare l’ondata di gdr degli anni ’80). Ho già parlato a sufficienza a proposito dell’illusione di chi crede di poter davvero creare un personaggio che sia totalmente diverso da sé stesso in questo articolo sul mito del metagaming nei giochi di ruolo. Mi limito qui a ribadire i concetti di base: il gdr non è letteratura, non richiede Personaggi profondi psicologicamente nè è necessario o auspicabile giocare Personaggi dalle profonde sfaccettature di personalità che li renda differenti da noi, cosa impossibile per chiunque (leggete un libro di Stephen King e ci troverete sempre Stephen King: è impossibile produrre qualcosa di totalmente diverso da noi). Non è necessario farlo per fruire del gioco e divertirsi, questo va detto e ripetuto: è uno dei tanti modi di giocare di ruolo, non il SOLO modo di giocare.
Il Personaggio diventa “vivo” nel corso del gioco, non prima !
Tuttavia la vera falla nel pensiero di Andrea qui è che egli non si rende conto del fatto che sedendomi al tavolo e interagendo col mondo fittizio io sto già imprimendo la mia individualità all’Archetipo precostituito: non ho bisogno di una “meta-regola”, che mi limiti nell’unica attività che invece non dovrebbe avere limiti (l’immaginazione e la creatività) !
Nel momento in cui io muovo un Personaggio gli sto già imprimendo delle caratteristiche altre che derivano dalla mia persona, in quanto unica, irripetibile e differente dagli altri. Non ho semplicemente un Personaggio con la maschera di Conan il Barbaro appiccicata sopra: il mio barbaro “somiglia” a Conan, ma… ma… è anche Altro.
Il “mio” Conan diventa davvero MIO non quando gli creo un background, una personalità e una lista di drammi interiori lunga quanto un catalogo dell’Ikea, ma quando agisce nel mondo fittizio: egli farà cose che il vero Conan non ha fatto; farà scelte differenti dalle sue, e le farà perchè IO l’ho deciso, non perchè una sorta di Archetipo-Maschera me l’ha imposto.
Leggiamo:
Da ciò segue che il godimento del giocatore non consista più tanto in ciò che il suo personaggio ottiene nel gioco, ma dall’armonia del racconto collettivo che, con le sue inferenze, contribuisce a creare. Il personaggio non media ciò che il giocatore vuole, ma semplicemente gli permette di partecipare insieme agli altri, allo svolgimento ed alla bellezza della storia. In questo senso il gioco diventa effettivamente sociale e condiviso: la finzione non soddisfa alcun bisogno particolare del giocatore, ma, al contrario lo impegna in un’attività libera e riflessiva, nella quale possono effettivamente convergere e riunirsi i contributi di tutti i partecipanti.
Lungi dall’essere un semplice “ologramma di me stesso”, il mio Personaggio diventa vivo non grazie al Background scritto, ma alle azioni che gli faccio compiere nel corso del gioco.
Qui il discorso di Andrea si tinge di retorica narrativista, perchè sembra sostenere, implicitamente, che se uno gioca un Personaggio che vuole ottenere delle cose nel gioco (leggi: tesori e punti esperienza) di fatto non si integra nella “storia” nè partecipa ad una attività sociale condivisa.
Al danno della concezione di Andrea, che vuole liquidare del tutto la parte squisitamente ludica e legata al miglioramento del Personaggio come negativa, si aggiunge la beffa: egli infatti ci dice che in questo modo il Giocatore si impegna in un’attività “libera e riflessiva”, quando allo stesso tempo sta limitando la libertà del Giocatore stesso nella sua facoltà di interpretare il Personaggio che desidera e ottenere benefici dal gioco. Questa è una contraddizione che non verrà mai risolta da Andrea nel corso dell’articolo.
Il succo del discorso qui è che io debbo reprimere la mia voglia di interpretare il personaggio che voglio, per timore di rovinare l’esperienza agli altri Giocatori a causa dell’illimitatezza derivante dal mio uso sconsiderato dell’Archetipo, il quale mi impone di giocare il mio alter-ego in un modo che potrebbe rovinare il divertimento degli altri.
Risultato: rinuncio al mio divertimento per favorire quello del gruppo, che è un sacrificio un pò estremo, e nemmeno tanto necessario perchè come ho detto prima, i limiti già ci sono e sono rappresentati dal Master, dal setting e dal gruppo stesso… non c’è bisogno di costringermi ulteriormente a interpretare un Personaggio “profondo e vivo” se non lo desidero ! In questo modo il gioco di ruolo diviene un’attività elitaria e anche un pò snob, concezione di cui molti rimproverano (e a ragione) la teoria indie-forgita.
Conclusioni, ovvero: dopo la pars destruens, è ora della pars construens
Leggiamo:
Soltanto tramite la conquista del limite tra giocatore-personaggio e tra quotidianità-gioco è possibile vedere la verità esperibile nel GDR. Se in un certo qual senso tutti noi giochiamo irriflessamente dei ruoli nell’ambito della vita quotidiana e che questa pluralità di ruoli compone ciò che possiamo chiamare la nostra identità, allora questa complessità può essere illuminata e portata alla coscienza tramite l’esperienza esplicita della differenza. Attraverso la mediazione del personaggio come alterità sentita dentro di sé e dunque agita nella fantasia condivisa del gioco, si può intravedere la molteplicità, frammentarietà ed anche l’incoerenza delle componenti che contribuiscono al nostro comportamento quotidiano. Si può imparare la messa in discussione delle proprie rigidità, affinare la propria sensibilità nel relazionarsi a sé stessi e dunque agli altri.
No. Non ho bisogno di confrontarmi con un gioco per giungere alla “verità” e capire quanto reali siano i miei “problemi quotidiani”: lo scopo di un gioco non è assolutamente questo. Il gioco di ruolo non può e non deve essere utilizzato come mezzo psicanalitico, per affrontare i nostri problemi esistenziali, per trovare la nostra identità o per risolvere le nostre contraddizioni interiori: se ciò accade naturalmente e spontaneamente, tanto meglio !
Ma non è questo lo scopo e l’obiettivo di un gioco di ruolo, che, lo ribadisco, non ha nulla a che vedere con la tecnica psicanalitica detta psicodramma. Gygax e Arneson non avevano certo in mente lo psichiatra Javier Moreno quando hanno dato vita al primo gioco di ruolo della storia, nè avevano come scopo quello di aiutare i Giocatori ad affrontare la realtà: per quella, l’unica soluzione è la prassi quotidiana.
Sostenere che l’esperienza del gioco “autentica” si possa realizzare solo ponendo in relazione il vivere quotidiano con i ruoli interpretati durante il gioco è una visione limitata e che non fa onore al gioco di ruolo il quale, ribadisco è prima di tutto un gioco.
E in quanto gioco, il gdr non richiede affatto Personaggi dalle personalità sfaccettate dall’afflato letterario, nè richiede meta-regole “a priori” diverse dal semplice buon senso che dovrebbe regolare qualsiasi altra attività sociale: il gioco di ruolo richiede solo immaginazione e creatività le quali ricadono semmai nell’espressione artistica che, in quanto tale, proprio come la religione e la filosofia, non ha limiti di sorta ed è spontanea, non un mezzo per sfogarsi o soddisfare un bisogno diverso dal puro divertimento.
Si gioca per giocare, non per conoscere se stessi: conosco me stesso agendo nella vita quotidiana, nella prassi e confrontandomi col mondo reale, non col mondo fantastico di un gioco di ruolo, il quale è un mondo-nel-mondo che non può e non deve sostituirsi alla mia capacità di confrontarmi con la società in cui vivo, affrontandola e criticandola.
E i gdr non possono nemmeno essere associati ad una forma-merce che “promette” il soddisfacimento di bisogni artificiali, indotti da una società capitalistica avanzata: il bisogno che il gioco di ruolo soddisfa, invece, in quanto gioco, è quanto di più naturale esista: quello della libera espressione dell’individuo come sostengono anche eminenti pensatori quali Aristotele (che lo paragona addirittura alla felicità e alla virtù, in quanto attività “libera e autosufficiente”) , Kant (“libero gioco delle nostre facoltà conoscitive”) e Hegel (“nella sua indifferenza e nella suprema leggerezza è la serietà più elevata e quella unicamente vera”).
Un gioco di ruolo nella sua essenza non è “merce” più di quanto non lo sia un’opera d’arte o un’idea: che poi esista un mercato dei gdr, così come esiste un mercato per le opere d’arte e persino un mercato delle idee, significa soltanto che il capitalismo ha corrotto anche queste forme di espressione spontanee e naturali rendendole artificiose; ma il gioco di ruolo in se, quello che giochiamo quando ci riuniamo un pomeriggio con gli amici seduti attorno ad un tavolo, non ha nulla a che vedere con una merce o un prodotto, nè con “promessa di soddisfacimento di bisogni di illimitatezza”, se non quello del divertimento illimitato.
Riepilogo in sei punti
- Il gioco di ruolo non è una merce che promette qualcosa senza poi mantenerla: si tratta di un’attività sociale libera e creativa; si basa sulla comunicazione, sulla condivisione e sulla creatività, tutte attività spontanee;
- Interpretare un Personaggio nel gioco di ruolo non ha mai avuto come scopo quello di fare nella realtà fittizia del gioco quel che non possiamo fare nella vita reale: il Personaggio nel gdr non è altro che un mezzo per esplorare il contenitore virtuale ;
- L’interpretazione non è affatto “dominata” da un Archetipo prestabilito, bensì parte dall’Archetipo per poi superarlo (in senso dialettico) e nel corso di questo processo nasce il nostro Personaggio, unico e irripetibile;
- Un Personaggio diviene unico durante il gioco, non prima: grazie alle scelte che il Giocatore fa in sua vece nel corso delle avventure, il Personaggio acquisisce già una sua dimensione unica che si distingue dall’Archetipo di partenza. Il background non è affatto necessario, essendo soltanto un’aggiunta, un “plus” per chi ha voglia di scriverlo;
- Non sono necessarie delle “auto-limitazioni” o restrizioni di sorta all’interpretazione, perchè il gioco di ruolo contiene già in se delle restrizioni atte ad impedire che l’eccesso di uno influisca sul divertimento di tutti e sono tre: Master, Gruppo e Contenitore Virtuale;
- Il gioco di ruolo non ha come scopo quello di risolvere i propri conflitti interiori, sfogare le proprie frustrazioni oppure evadere dalla realtà (piuttosto che affrontarla): il gdr, così come qualsiasi altro gioco, è libera espressione dell’individuo (Kant), fine a sé stessa (Aristotele) e per questo unicamente vera (Hegel).
Siete sopravvissuti fino a qui ? Bene, tanto di cappello a voi allora e spero di non avervi allentato troppo la mascella a forza di farvi sbadigliare ! Come sempre, l’intento di GDR Magazine è quello di incentivare e stimolare la discussione e il confronto, senza pregiudizi e soprattutto senza sminuire il contributo di nessuno ! In questo senso la riflessione di Andrea, sebbene mi trovi totalmente in disaccordo, ha stimolato me a esporre la mia e se la mia a sua volta stimolerà le vostre riflessioni, allora l’obiettivo di questo blog sarà raggiunto.
A questo scopo, scrivete pure le vostre critiche o commenti usando il box qui sotto !
Alla prossima !
Ok, a parte un paio di termini usati in modo erroneo (Regola Zero e Narrativismo), direi che concordo su ogni punto dell’articolo. Aggiungo solo una postilla: ti chiedi da dove venga il fatto che uno possa sentirsi limitato dall’archetipo; per questo devi tornare al regolamento: una regola potrebbe, di fatto, limitare l’archetipo. Prendiamo le regole dell’allineamento di D&D (pre 5E) ed il Paladino (pre 5E). Dato che il Master ed il giocatore potevano non essere d’accordo su un data interpretazione ed il Paladino è a forte rischio di caduta, il 99% dei giocatori lo interpreta come il più buono tra i buoni, il più legale tra i legali ed il più idiota tra gli idioti! E tutti si lamentano di questo fatto (alcuni adirittura vietano il paladino per evitare problemi).
Secondo il mia opinione personale, un GdR per aiutare l’interpretazione (in realtà per essere tale, ma non voglio approfondire adesso l’argomento), deve avere una storia. Giocare “un Personaggio che vuole ottenere delle cose nel gioco (leggi: tesori e punti esperienza)” non è interpretare: anche HeroQuest è un bel gioco, ma non è un GdR 😉
Complimenti per l’articolo ^_^
Ciao 🙂
Grande Red 😀
Grazie per aver letto e commentato e grazie per i complimenti, ero sul punto di pensare che non ci sarebbero stati commenti vista la prolissità dell’articolo !
No la domanda che mi facevo a proposito dell’Archetipo non riguardava tanto il lato regolistico quanto quello culturale: il Paladino come Archetipo è limitante non perchè il regolamento dice che deve essere Legale Buono, ma perchè la nostra cultura ci ha tramandato la figura del Paladino (tipo Orlando, tanto per citarne uno sconosciuto 😛 ) ? Oppure si tratta del Paladino per come è descritto in d&d (ripeto, tralasciamo un momento le regole e parliamo di descrizione o “fluff” come dicono gli anglosassoni) ?
Sul discorso storia siamo in totale disaccordo, ma ormai credo tu sappia come la penso (dopo aver letto gli articoli che ho scritto), inutile ribadire il concetto 🙂
Grazie ancora per aver letto tutto il poema 😀